vestito di nero
Fumerò, vestito di nero, come certi violinisti,
davanti alle separazioni ferroviarie
conseguenze d’un assolo d’addio.
Tè sfilacciato il tuo vecchio Holbourne,
nel gas del treno che scioglie verso
Milano una masochistica prognosi memoriale.
Sei ventuno coppie d’ali –
età selvaggia, d’inaccessibile logica –
m’hai chiesto: «tagliamele, alla radice della
schiena», capelli di rosa dipinti,
design da ragazza spezzata,
giacca turchese maschile che ha
sfilato un weekend lungo dodici anni
alla tua tanto invisa giovinezza.
La soggettiva d’una bocca che non
torna a masticare non è la strada
per riallacciare i ponti sospesi, così
la vescica che si svuota non vince
il jackpot della slot attigua all’ano.
Volevi gattonare nei parchi annodata
al mio collare di spine, mia sposa,
spiluccando gli occhi-nespole dei voyeur.
Invece, al raglio dei vagoni in tumulto,
per tirare la tua cicca fino al filtro,
t’ho mancata.
Fumare non è l’unica libertà
che m’hai insegnato.
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