CHANSON DE BLACKBOULE’ – UN’ECO

Come il tempo dissipa la sua banalità
nella geometria dei cicli mestruali,
vorrei scorrerti attraverso.
Non ti avrei estorto ciò che più
nemmeno possiedi, se fossi riuscito
a tacere il timore di aver approfittato
oltremodo della tua cortesia.
Non ti avrei chiesto nient’altro,
a parte un baratro ulteriore
in cui sedermi e ordinare da bere
ripensando lo psicodramma che è stato
pascere la tenerezza ortogonale
nell’umiliazione. Nell’aporia.
Ieri, gli argini della sorte si sono
dischiusi in una frotta silenziosa
di rivoluzioni e contro-rivoluzioni
mentre già ci divideva un’intera
città appena suscitata dall’alba.
La più devota concubina del dubbio
mi sei sembrata, e insieme la schiava
più sottomessa alla liturgia della perfezione,
un’idea spietata che ha alterato la rotondità,
persino il colore dei tuoi grandi occhi girevoli.
Se solo me lo avessi lasciato fare
avrei scritto a margine della tua stele
l’ultima parola spiccata all’amore
e accanto l’esatto contrario.
Invece ti sei incurvata sull’orizzonte
della mia schiena, inorridita dalla logica
e hai cominciato a braccare le mani
nelle mani, le viscere legate da corpo
a corpo come ostentazione di un
sentimento mai proteso all’imbrunire,
e in questa caccia ai significati,
hai definitivamente rimosso
la possibilità di un bene superiore.
Non avresti avuto niente da temere insieme
l’avremmo ammansito, il terrore dei giorni normali.
È così che comincia la strada della disunione
è così che ci risucchia violentemente
in un panorama di sconcertanti contraddizioni:
mi sussurri della concavità del cielo
ma io dall’altra parte non vedo che
la sua configurazione convessa.
Tacciamo oggi, nel candore dello sterminio,
perché la verità è una nascita senza parto,
e l’amore, un innaturale rinvio di quel parto.

agosto 2018 – in foto, Emanuel Carnevali, poeta italo-americano

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