White Murder, di Massimo Mastrorillo
Testo di Vincenzo Montisano
Bianca la luce del pomeriggio, e la nebbia sul campo di pallone su cui crescevano le bianche gambe di noi ragazzi. E la fabbrica, più in là, bianca e pallida, a segnare il limite di un futuro che avremmo scoperto impossibile. Sarebbero venuti i giorni del lavoro e della dignità, in cui l’autodeterminazione personale avrebbe affiancato il progresso di un popolo, di una nazione, di un continente. I giorni in cui avremmo pagato il prezzo del castigo biblico, della suprema punizione per la nostra tracotanza. Ma noi, tra un battibecco e l’altro per un fallo subito, mentre il pallone rotolava oltre la massicciata, non conoscevamo ancora i salmi di questa liturgia. Così come non sapevamo che in quello stabilimento industriale, a qualche metro di distanza dalla nostra giovinezza, si forgiavano i sogni di un paese che non ha mai imparato a discriminare i sinonimi dai contrari e, a un tempo, la miserevole fine di quegli stessi sogni. Più avanti ci saremmo chiesti, nell’imbarazzo per la banalità che il nostro interrogativo impone, fino a che punto il lavoro coincidesse con il dovere: il dovere d’essere puntuali, alzarsi, ogni mattina, per spezzare la colonna vertebrale dei calendari, il dovere di un sissignore che ottunde ogni volontà, al solo fine di mangiare e bere, dormire e figliare, mettere un tetto in testa ai nostri bisogni primari. Sarebbe stata questa, la nostra dottrina. La dignità di vivere ma anche, come se tutto ciò non fosse il compromesso minimo per una mai sopita schiavitù, accollarsi il rischio di una morte che ci stronca la vita, in un soleggiato mattino feriale, proprio mentre stavamo lottando per averne una.