Per sopravvivere al secolo del pensiero unico. Ovvero: leggendo Lobo Antunes a Lisbona

Nel cuore della capitale lusitana, la piazza del café “A Brasileira”, reliquario sacro di Fernando Pessoa, è gremita di gente che si lascia immortalare accanto alla statua del poeta – al tempo, dicono, alquanto schivo, e oggi facinorosamente eletto attrazione di punta dal turismo di massa. A pochi metri, un artista di strada, con in braccio la sua Stratocaster contusa, velocizza una nenia popolare di João Gilberto.

E mentre il cielo si allunga negli infiniti colori del tramonto oceanico, un senza tetto si avvicina al mio tavolo, mi chiede spicci e sigarette, per poi ritrarsi mesto in un angolo della piazza: estrae dalla tasca un tozzo di pane e lo spezzetta sulla calçada portuguesa, il lastrico pietroso che esalta la luminescenza naturale della città. Attratti dall’odore della fortunosa libagione, stormi tempestivi di piccioni e di gabbiani ci si avventano sopra in uno smanacciare ventoso d’ali, nel tentativo di sedare i morsi della fame nemica.

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