SALÒ O IL PRESAGIO DI UNA CATASTROFE REALIZZATA

Più di ieri ma meno di domani, le aberrazioni della contemporaneità imporrebbero alle residuate coscienze di tornare a leggere gli scritti, a visionare i film, ad ascoltare la musica, a riappropriarsi di quei capisaldi dell’espressione artistico-filosofica, italiana e straniera, che all’alba della società dei consumi capitalista avevano predetto, con agghiacciante puntualità, il tramonto definitivo della civiltà occidentale. Penso tra gli altri a Deleuze e Marcuse, a Foucault e, più tardi, a Baudrillard, e naturalmente a Pier Paolo Pasolini, la cui ultima, pionieristica fatica cinematografica, Salò o le 120 giornate di Sodoma, basterebbe da sola a ricostituire l’intero sistema immunitario dell’apparato culturale europeo ormai al collasso, sodomizzato dal modello americano, sferzato quotidianamente dal vento dei movimenti nazionalisti di ultradestra e dai colpi d’ariete della tecnocrazia, bianca e suprematista.

Il film, partendo da de Sade, ripercorrendo la spina dorsale di Marx e sfruttando la struttura narrativa a gironi dell’inferno dantesco, teorizza il più dettagliato ritratto del potere (sia esso economico, politico, religioso, giuridico) mai apparso sullo schermo. In un’atmosfera sordida e rarefatta, PPP trasfigura il bailamme di coda della Seconda Guerra Mondiale e in particolare, eleggendola a teatro di posa perfetto per le più abiette atrocità, si concentra su quell’ingerenza storica che fu la Repubblica Sociale Italiana di Salò, e più in generale il nazifascismo. Quattro gerarchi, rappresentanti emeriti delle classi di potere sopracitate, incaricano SS e repubblichini di sequestrare diciassette figli del sottoproletariato antifascista e di condurli all’interno di una villa di periferia, in stile neoclassico, tagliata fuori dal mondo e lontana da ogni giurisdizione di diritto.

Il Duca: «Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla Terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti».

Dopo aver stipulato tra loro un patto di sangue e controfirmato il Codice di (de)regolamentazione dei rapporti all’interno della villa, i gerarchi, con l’ausilio di quattro megere, ex-meretrici di bordello, obbligano i giovani uomini e le giovani donne a una turpe disumanizzazione: li trasformano in valvole di sfogo costantemente esposte alle intemperie dei loro appetiti sessuali, spogliandoli di ogni prerogativa democratica, facendo di essi vittime sacrificali indegne persino dell’ultima, la più nefasta, nonché l’unica possibilità che hanno di essere scarcerati da quel circolo infernale: la morte.

Il Vescovo: Imbecille! Come potevi pensare che ti avremmo ucciso? Non lo sai che noi vorremmo ucciderti mille volte, fino ai limiti dell’eternità, se l’eternità potesse avere dei limiti?

Con lo stesso coraggio con cui affrontò la sua vita e che gli costò poi l’assassinio (di Stato?) nell’ancora oggi squallida Italietta ghettizzante e provinciale, PPP scelse di rappresentare, tra tutti i volti deteriori del potere, quello più controverso: il volto anarchico. Dispotico e assolutamente parziale, questo è il volto che rende possibile l’individuazione dell’inscindibile legame tra l’esercizio tirannico dell’autorità e la perversione sessuale. A tal proposito, ebbe a dire: «Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole e ciò che il potere vuole è completamente arbitrario, o dettatogli da sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune». L’azione si svolge quasi interamente nei grandi e spogli saloni della villa: le pose dei protagonisti sono plastiche, la fotografia perfetta, i costumi sfarzosi. Tutto è in netto contrasto con l’insostenibile brutalità dei contenuti e i quadri che si susseguono durante la visione, vertiginosamente orientata all’abiezione (si passa dal girone delle manie e della merda fino a quello del sangue), sono distaccati e distanti da qualunque orpello virtuosistico che potrebbe, in un senso o nell’altro, ammiccare a un’estetizzazione del Male. La nudità dei corpi dei giovani, costretti a mangiare gli escrementi dei gerarchi o la polenta riempita di chiodi, contribuisce assieme al formalismo austero della tecnica registica, intrisa di pulsione di morte freudiana, a non erotizzare il potere, semmai a tracciare quella sfumatura antierotica attraverso cui il potere può e deve essere destabilizzato. Se Gilles Deleuze ribalta il rapporto servo-padrone del binomio sadomasochista, affermando che è grazie al sacrificio volontario del secondo che la soddisfazione del primo può aver luogo, PPP annulla completamente ogni eventualità di scambio del piacere: il godimento esiste soltanto in funzione di una struttura gerarchizzata i cui ruoli in nessun caso, e per legge, posso essere intercambiati. La libido vive di per sé. Quella del padrone, nell’imposizione fascista sul servo. Quella del servo, nell’asservimento rinunciatario di ogni volontà di rivolta. Qui sta la “classicità contemporanea” della visione pasoliniana e Salò, lungi dal poter essere liquidato come mero testamento morale, nello strisciante tentativo di archiviare, se non addirittura normalizzare la portata epocale di una figura come la sua, geneticamente indomita, riflette su tematiche che dal 1975 a oggi hanno percorso un bel tratto di strada in direzione di quella cancrena generalizzata cui assistiamo, silenti e schiavi, nella società dei consumi, in cui anche il sesso è un obbligo di massa.

In perfetto accordo con un patto non scritto di sudditanza alla perversione di un sistema che vive a scapito dei più deboli, noi mangiamo la merda, culturale e non, che ci obbligano a mangiare; ci apriamo le vene per comprare le cose che ci ordinano di comprare («Una volta leggevamo pornografia, ora siamo passati ad arredomania», per citare Chuck Palahniuk); e anche il sesso che facciamo è spesso il dovere, l’imposizione di un modello dittatoriale di avvenuta prestazione, tradito il quale ci è impossibile stabilire i contorni certi della nostra identità. Chi oggi è convinto di vivere in democrazia, è un fantasma che non rintraccia le benché minime coordinate del mondo in cui si aggira. Della democrazia resta in piedi il frontone scintillante, ma il tempio è stato completamente distrutto. I simulacri più evidenti (elezioni, referendum, etc.) servono come deterrenti contro il dissenso di chi, pur percependo la menzogna, non può gridare il re è nudo, perché rischia di perdere quella miseria infame che gli hanno concesso, spacciandogliela per ricchezza. Governi nazionali scalzati dalle lobby finanziarie; tecnologia invasiva, promulgata come mezzo per l’emancipazione delle masse, salvo poi a rivelarsi il più sanguinario strumento di controllo mai messo a punto per dissanguarle; una classe dirigente sempre più oligarchica e un dibattito (si fa per dire) politico sempre più polarizzato a destra – anche qui, a stelle e strisce. Era già tutto previsto: siamo passati da un fascismo imposto con le armi e la violenza, a uno imposto con i consumi, i modelli culturali (vedi M. Il figlio del secolo) e con la tecnologia. Un potere invisibile a cui tutti ci adeguiamo e che, citando il poeta, «manipola i corpi in modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono dei valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio di culture viventi, reali, precedenti».

L’alba del tecnofascismo è già spuntata da un pezzo e presto o tardi lascerà che anche gli ultimi fantasmi della democrazia, consci finalmente del loro stato ectoplasmatico, muoiano nella luce insanguinata del giorno nuovo. Con Salò, PPP ci ha lasciato non un punto di arrivo del suo pensiero, una resa incondizionata davanti al nemico onnipotente, bensì un grumo di dolore dal quale ricostruire una possibile, anche se improbabile, resistenza.

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