Il nostro bisogno di torturatori. “La Luce Inversa”: storia di un libro devastante

Di Mota, avevo sentito parlare. Del suo ventennio trascorso in solitudine sulle montagne piemontesi, del suo alter ego che ha calcato le scene del rap, dell’argomento spinoso su cui si impernia il suo testo. Ho provato a immaginare quale difficoltà debba fronteggiare un autore nello sporgersi, e nell’esporsi personalmente, sul ciglio di un abisso che in potenza è senza fondo, armato soltanto delle proprie parole e del proprio coraggio. Quando la narrativa di finzione arriva così vicina al punto di fusione con l’autobiografia, non c’è niente da fare: la sfida la vinci o la perdi

Conosco Mota nel caos di piazza Garibaldi, a Napoli, insieme al suo editor Emiliano Peguiron, in una tarda mattinata di maggio, col sole che scalda e non scalda. Pantaloni cargo, maglietta basica, berretto militare con visiera. Al volo, ci imbarchiamo su un autobus sgangherato in direzione Pomigliano D’Arco. A destinazione, ci attende l’ormai storica libreria Wojtek, roccaforte di lettori preparati ed esigenti – una rarità, purtroppo, per lo stivale. In tangenziale, col vento che rumoreggia attraverso i finestrini abbassati, saltano fuori Houellebecq, Bergman e Vollmann, conveniamo che gli scrittori possano essere “pugili o ex-pugili” e l’atmosfera subito si distende, prendendo inevitabilmente corpo. 

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