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Nel cuore della capitale lusitana, la piazza del café “A Brasileira”, reliquario sacro di Fernando Pessoa, è gremita di gente che si lascia immortalare accanto alla statua del poeta – al tempo, dicono, alquanto schivo, e oggi facinorosamente eletto attrazione di punta dal turismo di massa. A pochi metri, un artista di strada, con in braccio la sua Stratocaster contusa, velocizza una nenia popolare di João Gilberto.

Più di ieri ma meno di domani, le aberrazioni della contemporaneità imporrebbero alle residuate coscienze di tornare a leggere gli scritti, a visionare i film, ad ascoltare la musica, a riappropriarsi di quei capisaldi dell’espressione artistico-filosofica, italiana e straniera, che all’alba della società dei consumi capitalista avevano predetto, con agghiacciante puntualità, il tramonto definitivo della civiltà occidentale.

I l numero di bare dei cineasti che, come un rave party di processionarie, infesta le nostre sale cinematografiche è in costante aumento. Dopo Darren Aronofsky, Christopher Nolan e altri illustri colleghi che si sono lasciati ingolosire dal truculento guazzabuglio di paillette e lustrini dello star-system hollywoodiano, è ora arrivato il momento di portare a spalla il pesante feretro di Yorgos Lanthimos.