differenza di potenziale

vincenzo montisano


N. è in ritardo. La strada costiera è deserta: potrebbe essere la mia ultima volta sul litorale. La brezza e le valigie, il sole mortale; in mare vele bianche, gabbiani intrappolati tra acqua e aria. Se fisso ancora quel fianco di montagna laggiù – mi sono detta in questi lunghi anni – disteso, flessuoso e azzurro, un giorno mi chinerò anch’io verso l’orizzonte.

Sono stremata dall’attesa. Lascio i bagagli bene in vista, di fianco alla strada e ridiscendo la scalinata che si snoda tra gli oleandri, dalla cima giù, verso un punto più basso della parete rocciosa.

L’uso che N. faceva dei tempi verbali avrebbe dovuto insospettirmi. “Potremmo” o “sarebbe bello se noi” come se noi fosse un’ipotesi da verificare più tardi, più in là. Non dico che mettere in discussione marito e figlio sia una cosa semplice… ma perché illudermi in questi mesi? La sua vigliaccheria riflette in parte la mia. Alla mia età dovrei essermi rassegnata già da un pezzo alla solitudine. Invece non smetto di imparare come la paura in una donna implichi sempre una certa dose di meschinità.

Giungo in una specie di slargo pietroso che dà direttamente sul mare. C’è odore di erba umettata. Gli insetti banchettano sulla mia pelle. A ovest, alcuni pescatori stanno sfasciando delle vecchie barche.

Ho regalato a N. decine di collane, confezionate per lei nel mio piccolo studio. D’ametista, d’opale messicano, d’acquamarina. Oggi raccolgo pietre comuni, per ingannare l’attesa. Sono sporche di terra. Le intreccio con alcuni legacci di cuoio che tengo in borsa per occasioni simili. Infine la indosso. Pesa.

Mi avvio verso il ciglio dello slargo e, sporgendomi, la vertigine della parete rocciosa a picco sul mare mi stringe lo stomaco. Nutro per N. un’ebbrezza simile e, nell’immaginare la nostra vita insieme, una vaga sensazione di umidità tra le cosce.

N. è l’ennesima intemperia incapace di impartirmi la lezione. «Potremmo andarcene» mi aveva detto N. Un altro periodo ipotetico. Ma a me era bastato e, stupidamente, ci avevo messo il resto: le gambe, il fiato, la rabbia, le valigie, il licenziamento. Ho cominciato a odiare troppo tardi il nostro potenziale inespresso.

Un bel venticello spira adesso sulla rupe e sugli interminabili quarti d’ora che consumo nell’ipotesi del salto. Muovo un altro passo verso lo strapiombo. È insensato, ho la vita appesa a un condizionale; il collo nelle mani di N., pronto per essere spezzato in due.

N. non verrà, schiacciata com’è dalla sua mediocrità d’individuo. Vorrei colmare il vuoto di ogni centimetro sottostante che mi separa dall’acqua irascibile. Se mi lanciassi giù, sotto il peso della collana, questo stesso sentimento lo esprimerei per le onde che, cinquanta metri più in basso, m’impongono il loro canto perpetuo di flutti sfasciati sugli scogli, cui sento di dovere obbedienza. Questo è l’abbandono, simile alla fiducia ma meno gratuito. Simile all’amore volgarmente detto.

Poi sento il fragore di un’auto sopraggiungere borbottando sul capo del pendio. E’ arrivata, mi dico. Torno a respirare. Prendo la borsa e mi precipito sugli scalini; lascio dietro di me lo slargo, la possibilità del salto. L’auto è ferma una decina di metri più su. Spero macchinalmente. Spero che abbia notato i bagagli; inciampo su un gradino meno sporgente degli altri. Si apre un taglio sul mio ginocchio destro. Ma il rumore di uno sportello che si chiude mi spinge a proseguire. Ho le mani insanguinate.

Col fiatone, giungo a livello strada. Scopro quell’angolo di mondo essere tornato nuovamente deserto, come l’avevo lasciato. Sopra i miei bagagli, adesso sporco del mio stesso sangue, c’è un biglietto di N.

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