Notte. Rosso, il cielo. E labbra di donna e ventri rigonfi, a coprirlo. A tonnellate si affollano nuvolaglie lugubri per le praterie del firmamento ed io sotto-messo, ramingo nella città, la mia, deserta. Le strade viste milioni di volte, i passaggi a livello, i bar dove si tirano pompini con la serranda a mezz’asta. Per arrotondare. Lì, dietro un angolo, trovo il palazzo. Si staglia immenso contro un cielo logoro di riverberi scarlatti – chi ha squartato quella volta celeste? Non posso che rabbrividire al freddo pungente che soffia una sensazione di straniamento. Questo luogo mi è sconosciuto, eppure caro come il ventre di una madre. Ha poche finestre, la facciata, alcune cieche, altre socchiuse, da cui trapela una decisa luce di taglio. Il portone è una bocca serrata.
La serranda del bar si chiude definitivamente, dall’interno, e dopo l’atmosfera diviene immobile. Le luci dei lampioni sono sistemi fissi. La mia paura più grande prende possesso della scena in un tripudio di staticità, afferma se stessa assassinandone ogni movimento.
All’improvviso, si spalanca la bocca del portone. Dal palazzo, come rigurgitato, un flusso costante di persone. Un serpente, sagome scure che si accalcano velocemente in file di cinque o sei. Sono decine, centinaia e procedono. Procedono, sembra, ipnotizzati da una melodia che soltanto io non avverto.
Mi lancio nella mischia e nessuno di loro mi è particolarmente familiare. Se scelgo un viso a caso, mentre cammino, mi è ignoto. Ma se li guardo distrattamente, l’insieme assume le sembianze di una domenica mattina, in cui il mare e il porto hanno deciso di brillare con una forza d’asteroide. Nell’ammasso di nasi e orecchi che fluiscono verso la grande scalinata, in fondo alla strada, mi sento al sicuro. Sebbene il cielo impazzisca di elettricità, nonostante l’atmosfera sia pregna di sangue. Rimango tra le miriadi di braccia e mani e dita, con la confidenza con cui si respira l’aria durante l’amplesso, con cui si ammira quell’intrigo di capelli e caos e ci si sente vivi per un breve, eterno istante.
La scalinata è immensa. Gloriosa, ascende per diversi metri verso quella che mi sembra una cattedrale. Le altissime guglie scorticano i nuvoloni porporati. Mi fermo e sono sorpassato dalla coda del serpente umano. Quando rimango da solo sul sagrato, mi accorgo che la città ai piedi della scalinata è sparita, fagocitata voracemente da nubi insolubili.
La cattedrale è gremita di gente: osserva un silenzio di tomba. Le navate, separate da colonnati di marmo, procedono crudelmente verso l’altare. Quadri barocchi d’ogni dimensione e baldacchini d’oro nei transetti. Statue dalle teste mozzate e dipinti, nell’abside, di rara bellezza, da piangerci sopra lacrime d’argento.
Un tappeto rosso, dall’ingresso, si stende fino al coro. Avanzo lentamente, sormontato dalle volte a crociera. Si palesa, ancora, la paura, e questa volta nei diabolici dettagli di una bara di mogano, lucida, ai piedi dell’altare. Più mi avvicino al cuore della cattedrale, più il silenzio immoto è rotto da un paio di voci che piangono in sincopati singhiozzi.
Nelle prime file, un uomo e una donna, stretti vicini, si coprono il viso con le mani. Nessun altro piange, l’intera moltitudine intervenuta è fredda. Mi avvicino verso l’uomo e la donna. Prendo le loro mani, tutt’e quattro, con dolcezza, e scopro i loro visi: mio padre e mia madre sono bricioli di devastazione. Chiedo, perché piangete? Ma loro non mi captano neanche.
Mi giro verso l’altare e la bara è lì, a pancia vuota.
La folla d’un tratto comincia a urlare, a incitarmi. Addosso mi preme una nefasta volontà plebiscitaria. Quelli urlano tanto da stirarsi l’ugola, tanto forte che il boato pare capace di accendere inferni mirabolanti. Non parole ma mugugni sconnessi, in armonie dissonanti, che coprono il pianto ancor più disperato dei miei.
Davanti alla bara ci sono due scalini di legno e uno, l’ultimo, d’alabastro. Il primo. Il secondo. Quando giungo sul terzo, tutti tacciono di nuovo.
Il feretro è della mia taglia. Mi sdraio e una volta steso mi accorgo che sul tetto della crociera c’è un buco, un occhio enorme che spia le trame di un cielo di stelle. E’ la paura, che mi assale. E’ l’incanto della morte che barcolla ubriaca sotto le vesti candide di una bellezza senza confini. Qualcuno chiude il coperchio della bara. Una vertigine smisurata di solitudine. Poi, il buio.